giovedì 19 dicembre 2013

A}_{TRATTI

MARCO ACQUAFREDDA e STEFANO PARRINI presentano la mosta A}_{TRATTI

Foto: Leonardo Garofalo

Testo di Martina Marolda

A tratti

…solo le stelle tremavano nel secchio che saliva dal buco nero del pozzo, oblò che dava su un altro universo, ma non era il caso di affacciarsi dall’altra parte e trovarsi chissà dove…
Claudio Magris, Microcosmi



Una doppia valenza come integrazione e come significato ulteriore che non solo completa bensì aggiunge, è un di più, una lettura ulteriore della realtà. Così è il tratteggio, così l’attrazione.
La linea tratteggiata è continuità e non separazione, è consistenza, composizione del soggetto e quindi presenza viva; è insieme sorpasso e dunque un non-confine, uno sconfinamento fisico e simbolico tra più mezzi, tecniche, una fluidità di passaggio da una materia all’altra.
L’attrazione è quella del pulviscolo atmosferico, della polvere domestica che giorno dopo giorno si deposita sulle superfici segnandone lo scorrere inesorabile e naturale del tempo; ma è anche quella della grafite che, all’opposto, viene per sua natura debolmente respinta dal magnete.



Nella doppia personale di Marco Acquafredda e Stefano Parrini, fotografie e disegni si intersecano continuamente richiamandosi le une con gli altri e viceversa, divenendo ibridi, quasi perdendo una parte della propria natura per prenderne una dell’altra. Le fotografie di Parrini si avvicinano allora a carte geografiche, o meglio astronomiche, segnate da rotte personali; i disegni di Acquafredda si fanno istantanee di un mondo terreno, privato, naturale in continua mutazione.

Home è il progetto presentato da Stefano Parrini e consistente in una serie di stampe digitali retroilluminate che vanno ad inserirsi inaspettatamente nei meandri più intimi dello spazio, la Sala delle Macine dell’ex mulino di Monteroni d’Arbia, quasi fossero orifizi di un corpo umano e allo stesso tempo oblò di una nave, obiettivi di un telescopio che gettano luce su un universo altro, quello tutto personale e domestico dell’autore. Sono pianeti, nebulose, costellazioni minuziosamente codificate da coordinate casalinghe e quotidiane. Come afferma Parrini, circa la genesi del lavoro, “ho usato delle vecchie pellicole, spezzoni di immagini scelte per l’occorrenza, ad esempio le parti finali dei rulli o le prime immagini, quelle scattate per portare il rullo nella giusta posizione. Ma sono anche scatti ad una lampada led che ho in casa; tutte immagini poste a stratificare la polvere nei luoghi che in seguito ho descritto su una mappa, ognuno con una sigla. Dopo circa tre mesi, ho scannerizzato tale materiale in un file digitale che ho poi postprodotto tracciando le linee delle mie costellazioni”. Il risultato tangibile è l’unione di punti in un firmamento luminoso e pulsante, tutto personale, quello che l’autore che svela agli occhi di ciascuno.
Un cosmo concentrato dunque, un microcosmo che è riflesso del macro che ci contiene, che è poi casa di tutti.
Non solo cieli, ma anche paesaggi lunari, panorami terrestri accompagnano l’universo di Parrini. Sono deserti, montagne, distese rocciose fatte con carta millimetrata o con buste di nylon accartocciate, fotografate in digitale e ancora una volta postprodotte stratificandovi alcune delle pellicole polverose usate anche per le costellazioni: sono sguardi, viste di superfici planetarie create in casa, ancora una volta.

Ma il tratteggio è anche la traccia viva di un passaggio, un’orma corporea, un fossile sputato dalle interiora della terra, riemerso in superficie. Così i lavori di Marco Acquafredda rappresentano altri universi o probabilmente parti anatomiche di un corpo nudo, vero, che trasuda calore e vita, respira, si dilata nello spazio, si muove quasi a prendere la forma dell’ambiente. Acquafredda lavora sulla superficie della sala, sopra il pavimento, sulle pareti, sul soffitto, quasi a voler sfiorare, solleticare la pelle delle cose. La polvere che si è depositata viene allora lavata via o toccata tanto da imprimere un segno. La serie di carte con composizioni monocrome sembra depositarsi come foglie sul pavimento, casualmente, nello stesso modo in cui sono nate, una sull’altra: “probabilmente sono ossa, legni, rivoli d’acqua o frammenti anatomici. Probabilmente perché non sono immagini descrittive o volute”, spiega l’autore, “direi piuttosto trovate, aperte per questo a più interpretazioni. Le carte sono state trattate con polvere di grafite lasciata in parte depositare e in parte portata via dall’acqua che, ristagnando poi su di esse, fa concentrare la grafite in zone delimitate dalle pieghe della carta bagnata. Il disegno è quindi il risultato del lento e progressivo asciugarsi della carta”. Traccia di uno scorrere, dell’evaporazione; l’autore dà l’avvio, poi il processo si fa da sé, naturalmente e quello che ne risulta è un ossario, uno scheletro, la colonna vertebrale di un essere vivente.
Su una parete, quasi impercettibile, una piccola foresta di bambù si intravede: sono quadretti con un fondo materico di grafite nera sulla quale Acquafredda fa scivolare un dito e un filo d’acqua, ancora una volta, in un gesto creatore molto calibrato, tutto umano.
Infine un trittico, sono disegni protetti, racchiusi da teche di vetro e legno dal vago sapore scientifico, collezionista; un formicolio di linee, piccoli segni neri ed elementi naturali puntati da spilli che ci restituiscono una fittizia terza dimensione in aggetto, un gioco di ombre che fa intendere, ma allo stesso tempo smentisce forme e contenuti, come ci spiega Acquafredda: “la ‘costruzione’ delle forme raffigurate è rivelata dalle traiettorie di carta piegata servita per tracciare ogni singolo segno, il tentativo visivo di trovare una ‘regola’ che giustifichi la forma descritta o forse il percorso, il segnale del tragitto della mano dell’autore in ogni suo movimento e passaggio sulla carta”.

Il percorso si snoda nello spazio senza soluzione di continuità, quasi fosse una scoperta continua, che non prevede un inizio né una fine determinati, ma si fa da sé, in totale libertà e che accompagna l’epifania visiva e tutta quotidiana dei lavori di Stefano Parrini e di Marco Acquafredda con il suono cadenzato e quasi cantilenante dell’ambiente: lo scorrere costante dell’acqua del vecchio mulino.


Martina Marolda               


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Foto a cura di: Leonardo Garofalo
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